È di grande attualità in questi giorni la questione dello smaltimento delle materie plastiche. Dal 3 luglio scorso l’applicazione della direttiva UE 904 del 2019 vieta l’utilizzo di una serie di utensili realizzati in plastica (posate, piatti, cannucce, etc) se non biodegradabili e compostabili.
Stiamo parlando anche di alcune plastiche nominate genericamente ‘verdi’, perché prodotte a partire da fonti rinnovabili (da bioetanolo prodotto da fermentazione di vegetali) e quindi classificate come bioplastiche, ma che non sono comunque biodegradabili entro i 90 giorni previsti da un’altra normativa europea (Uni EN 13432).
Grazie alla ricerca nel campo chimico per la quale l’Italia si è particolarmente distinta nella Comunità europea, i PET possono essere riciclati e in questa forma hanno attualmente moltissime applicazioni nella nostra quotidianità. Anche nell’abbigliamento, dove il poliestere (PET), con una corretta metodica di smaltimento, può essere rigenerato e riciclato. Per ulteriore chiarezza, la possibilità del riciclo non dipende dalla fonte (derivata da batteri naturali o chimica, cioè derivata dal petrolio) usata per creare il polimero che, essendo assente in natura, è definito sintetico.
Potremo ancora considerare in futuro fibre e plastiche prodotte a partire da fonti rinnovabili materiali sostenibili?
Detto questo, l’applicazione della normativa europea per ora limitata agli utensili di cui sopra, è destinata ad estendersi ed ad avere conseguenze anche nel settore della moda?
Poniamo la domanda alla dottoressa Alessia Patrucco, ricercatore presso l’Istituto STIIMA del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e dal 2012 impegnata in progetti di ricerca nazionali ed internazionali nel settore tessile, dei biomateriali e della valorizzazione di fibre di scarto.
“Le definizioni sono importantissime e spesso creano confusione a tutto vantaggio di chi sulla confusione genera greenwashing – premette Patrucco – . Intanto bisogna chiarire bene cosa significa in questo contesto il termine bioplastica ovvero plastica bio-based. Il suffisso ‘bio’ sta a significare che la fonte con cui vengono prodotti questi materiali è rinnovabile.
Le piante e il petrolio sono entrambe materie naturali da cui si estraggono molecole utili per sintetizzare i polimeri che costituiscono sia le plastiche, sia le fibre. Le piante si sviluppano velocemente rispetto alla rapidità di consumo delle stesse, si rinnovano quindi rapidamente, il petrolio invece impiega molto più tempo per riformarsi, ed è quindi definito fonte non rinnovabile. Il beneficio del produrre e utilizzare plastiche e fibre bio-based consiste proprio nel fatto di utilizzare fonti rinnovabili, ricavate da vegetali.
Si apre però il dibattito della sostenibilità dell’utilizzo dei suoli per scopi non alimentari. Ad oggi si utilizza il suolo già per produrre cotone, per ottenere lana (pascoli) per produrre fibre artificiali cellulosiche (la cellulosa si ricava dalle piante); quanto è, o sarà sostenibile utilizzare altro terreno per produrre bioplastiche e fibre sintetiche bio-based con una popolazione mondiale in continua crescita? Inoltre, sembrerà strano, ma solo il 5% del petrolio estratto viene usato per plastiche e fibre; packaging e tessile non sono quindi i settori che vanno ad impattare maggiormente sull’utilizzo di fonti non rinnovabili.
Ad ogni modo, ammettendo che il tutto possa essere sostenibile, le plastiche e le fibre bio-based non sono sempre biodegradabili. Un materiale di poliestere (PET) abbandonato in mare rimarrà per secoli intatto indipendentemente dalla fonte con cui è stato sintetizzato, quindi sia esso bio-based o meno. Biodegradabile e da fonti rinnovabili, come abbiamo chiarito, non sono sinonimi. L’ideale sarebbe produrre plastiche e fibre con processi più sostenibili possibile e che, a fine vita, siano anche biodegradabili”.
Le soluzioni a problemi complessi non sono semplici, vero?
“Mai purtroppo, comunque la ricerca va avanti, basti pensare a materiali come il PLA (Acido Polilattico), con cui è possibile ottenere bio-plastiche e fibre sintetiche bio-based che oltre ad essere prodotte da fonti rinnovabili in questo caso sono anche compostabili”.
Non si potrebbe allora sostituire plastiche e fibre tessili convenzionali con quelle di PLA?
Per prima cosa i due materiali hanno caratteristiche diverse, non interscambiabili.
Parlando invece di sostenibilità, si potrebbe pensare di ampliare i suoli coltivati per produrre una quantità maggiore di PLA, ma non riusciremmo a rimpiazzare tutte le plastiche e le fibre sintetiche. Nel 2019 abbiamo superato 115 milioni di tonnellate di fibre prodotte, di questa enorme cifra il 50% è composto da poliestere. Anche solo rimpiazzare le fibre di poliestere con fibre di PLA bio-based sarebbe quindi impensabile”.
Ci sono altre iniziative di ricerca interessanti?
Oltre le plastiche e le fibre biodegradabili la ricerca si sta orientando verso la produzione di fibre sintetiche convenzionali (poliestere, poliammidi etc.) a cui vengono aggiunti additivi che contraggono le tempistiche di degradazione. Ciò permette di cambiare poco o niente nel ciclo produttivo ma di ottenere materiali che permangono meno nell’ambiente.
Secondo lei la direttiva europea che attualmente tocca la plastica coinvolgerà anche il tessile?
“Secondo me no, non adesso almeno. Per bandire le fibre sintetiche non biodegradabili bisognerebbe riuscire a produrre lo stesso quantitativo di fibre biodegradabili con le medesime proprietà. Un significativo aumento produttivo di fibre naturali come il cotone e la lana o di filamenti cellulosici richiederebbe un enorme ampliamento di utilizzo di campi coltivabili, e ciò non è sostenibile”.
La soluzione ideale sarebbe la creazione di un nuovo polimero sintetico, dotato di adeguate qualità meccaniche per realizzare fibre che siano nel contempo biodegradabili. Un polimero che ancora non esiste. Inoltre bisogna adottare un approccio sistemico e tenere conto anche della sostenibilità economica di certe direttive. Nel mondo sono oltre 500 i siti di produzione di poliestere, aziende che oltre a fare business creano un’economia e un indotto rilevante.
L’auspicio è la creazione di polimeri con caratteristiche qualitative identiche o migliori di quelle attuali che possano essere trasformati in fibra nei 500 siti produttivi di poliestere: dismettere o cambiare gli impianti sarebbe un problema economico rilevante. Il mondo del tessile non è comunque fermo di fronte al tema della sostenibilità, a breve entreranno in vigore direttive sulla raccolta differenziata dei materiali tessili per promuoverne il riciclo”.
Ecco che in questo contesto diventa importante la ricerca sul riciclo che è il focus della sua lezione nella masterclass del corso di Out of Fashion…
“Il riciclo è una pratica che offre ai materiali una seconda vita che minimizza l’utilizzo di nuove risorse e che nel contempo ritarda il momento in cui i essi vengono dismessi.
Il riciclo è un argomento caldo, molto complesso che prevedrà sforzi scientifici e normativi. Sarà forse opportuno regolamentare la produzione di manufatti composti da tante diverse fibre in mista che non apportano differenze significative e che invece complicano o impediscono il riciclo dei tessili a fine vita. Questo è proprio il fine dell’ecodesign.
Le nuove pratiche di riciclo, l’ottimizzazione di quelle consolidate assieme a nuove tecnologie e polimeri saranno la chiave per un’industria tessile del futuro lungimirante sul fine vita dei capi di abbigliamento; sarà un lavoro di anni.
Alessia Patrucco è tra i docenti del corso di Out of Fashion 2021-22 e terrà una lezione dal titolo “Il ruolo dell’innovazione e i materiali del futuro: poliesteri biodegradabili, biopolimeri, biomateriali, materiali ottenuti da pratiche di riciclo”. La sua masterclass fa parte del secondo modulo del corso LA SOSTENIBILITÀ COME PROCESSO: I MATERIALI, LA CHIMICA E LA PRODUZIONE in programma il 10 e 11 dicembre 2021.
QUI tutte le informazioni sul corso.
Scrivi un commento