di Paola Baronio
Anche quest’anno la comunità di out of fashion rende omaggio alle vittime del Rana Plaza aderendo a Fashion Revolution: abbiamo  posato con le etichette dei nostri abiti rovesciate e il cartello che pone ai brand di moda la domanda “Chi ha fatto i miei vestiti?”. Pubblichiamo le immagini sul nostro blog e le posteremo nei social con l’hashtag #FashRev #whomademyclothes.
Domenica 24 aprile decorre infatti il terzo anniversario del più grave incidente sul lavoro dell’industria tessile. 1134 persone (la maggior parte donne) morirono nel distretto di Dacca, nel Bangladesh, per la caduta dell’edificio Rana Plaza dove erano costretti a lavorare nonostante nei giorni precedenti fosse stato dichiarato il pericolo per le strutture pericolanti.
Fashion Revolution è una campagna di denuncia nata in Gran Bretagna nel 2015 e coordinata in Italia da Marina Spadafora, che chiama a raccolta tutto il mondo della moda (brand, addetti ai lavori, operatori del settore)  in 83 paesi per sensibilizzare il consumatore sulla realtà che sottende l’offerta di capi di abbigliamento a basso prezzo (e non solo): delocalizzazione  della produzione in paesi con scarse tutele del lavoro, sfruttamento della manodopera, ambienti lavorativi insalubri e pericolosi, lavorazione e tinteggiatura dei capi attuate senza regole, con gravi conseguenze sugli ambienti e i territori.

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La risonanza del disastro di Rana Plaza è stata grandissima: impossibile anche per un settore solitamente “distratto” come quello della moda ignorare una tragedia di tale portata. Dal 2013 ci sono sono stati dei progressi: aziende come H&M, Nike e Kering si sono impegnate nel campo dell’etica e della sostenibilità con campagne che non sono state solo di comunicazione. Brand come Gap Gap Inc., Inditex e Primark hanno siglato accordi con rappresentanze statali e sindacali del Bangladesh per la salvaguardia delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori.
Ma lo sfruttamento della manodopera dei lavoratori del tessile è ancora sistemico e gli interventi per il controllo e la trasparenza della filiera – se e quando attivati – richiedono tempi e procedure lunghe. Pochi giorni fa si sono verificati due incendi in fabbriche dove si producevano vestiti in India e Bangladesh, mentre è di poche settimane orsono la notizia che rifugiati siriani – anche minori – sono stati costretti al lavoro per aziende occidentali del tessile (tra queste H&M che, dichiaratesi all’oscuro della situazione nelle mani dei soliti terzisti, è subito intervenuta impegnandosi anche per favorire gli iter procedurali dei rifugiati politici).
La strada da percorrere perché i lavoratori che contribuiscono ai colossali ricavi e utili dei brand della moda siano pagati il giusto e vivano in condizioni accettabili è ancora lunga.
Non bisogna abbassare la guardia. Dobbiamo essere vigili, informati, consapevoli!

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