Negli ultimi anni, nell’ambito del fashion e textile design, si sono avviati diversi progetti in cui la “terapia della cura” diventa chiave di lettura, riconoscendo di fatto il legame intimo e silenzioso che il tessuto e la maglia hanno sempre avuto con l’essere umano fin dalle più antiche origini
“Clothes are not just ornaments, they are also medicine”, Rose Tremain.
Mi piace iniziare l’articolo con questa frase di Rose Tremain, una frase piena di quella saggezza che rimane nascosta ai più, lasciata in silenzio, al buio, che non viene mai considerata quando si parla di vestiti, perché raccontati abitualmente solo come elementi di bellezza effimera e superficiale.
Si tende a dimenticare come l’abito sia il primo oggetto a contatto col corpo, si sottovaluta la potenza del suo racconto, della sua “espressività” a contatto con la pelle.
E questo rapporto che esperiamo quotidianamente, influenza il nostro umore, le nostre attitudini, le nostre relazioni con gli altri: iniziando ad indagarlo, si comprende come ogni mattina, appena alzati, decidiamo in maniera assolutamente istintuale cosa indossare. Non ne siamo consci, ma una consapevolezza profonda, nascosta anche a noi stessi, ci indirizza verso scelte che ci racconteranno nella nostra “giornata dentro il mondo”.
Anni fa ho disegnato una collezione che parla proprio della relazione tra corpo e abito, tra chi indossa e chi è indossato: Dialogues attraverso 2 punti di maglia, 2 colori, 2 filati, presentava 6 pezzi che raccontavano di dialoghi d’amore e di guerra, unione e separazione tra sé e il mondo. All’interno della collezione quindi, si trovano alcuni maglioni che erano pronti a “tenere per mano” attraverso una fascia sul polso, altri che erano pronti ad “abbracciare”, altri a “baciare”, altri ancora a “urlare” o ad “entrare in azione”.
Andando avanti con la mia ricerca, il collettivo Abitario – nato nel periodo Covid – tra i vari progetti aveva intrapreso un percorso di recupero di maglieria usata, dando nuova vita a capi dismessi o danneggiati: in quel caso non lavoravamo solo sul maglione, ma anche con chi lo indossava, l’individuo con il quale il capo riprendeva vita. Ciò ha significato entrare nella storia delle persone, delle loro famiglie, degli amici, degli amanti e degli amori. Chi ha intrapreso questo percorso lo ha fatto in modo molto cosciente e profondo: il maglione diventava in un certo senso “magico”, ossia andava oltre la funzione di coprire e proteggere, diventando un sostegno animico, emozionale, spirituale. Quei capi, ripresi in mano con la volontà di riutilizzarli, di farli tornare in vita, diventavano amuleti, “curavano” la persona e come riflesso le sue relazioni famigliari ed amicali.
Ma cosa vuol dire cura? E terapia della cura?
Dal latino “cura” e più anticamente “còera” e “còira”, è un termine riconducibile a “cor”, “cuore”: indicano l’arte del “quia cor urat”, perché scalda il cuore, lo fa pulsare, lo consuma.
Il termine greco “therapeia” vuol dire servizio, mettersi all’ascolto dell’altro.
Le etimologie delle parole sono sempre molto indicative, e partendo dal nocciolo del simbolo che portano in esse, è chiaro come la “terapia della cura” apra all’ascolto dell’altro, apra al mondo – al mondo nuovo – amandolo.
Negli ultimi anni, nell’ambito del fashion e textile design, si sono avviati diversi progetti in cui la “terapia della cura” diventa chiave di lettura, riconoscendo di fatto il legame intimo e silenzioso che il tessuto e la maglia hanno sempre avuto con l’essere umano fin dalle più antiche origini.
Un ottimo esempio è la tessitura SAORI, creata in Giappone da Misao Jo (1913-2018) alla fine degli anni ’60. Misao era una casalinga che iniziò a tessere quando aveva 57 anni e che rimase molto sorpresa quando un errore nel suo primo pezzo produsse una bellezza inaspettata: quest’errore la ispirò al tal punto che Misao iniziò a sviluppare un metodo di tessitura che abbracciasse le imperfezioni e la spontaneità. Nacque così “Saori arts NYC – Transforming lives through weaving”, una comunità inclusiva di tessitori che fornisce programmi tecnici e pratici sul telaio per persone con disabilità fisiche o intellettive.
Il nome SAORI è una combinazione del termine Zen “sai”, che significa “la dignità dell’individuo”, e della parola giapponese “ori”, che significa “tessitura”. Misao introdusse questa forma di tessitura alle persone con disabilità: lei e suo figlio progettarono telai con caratteristiche tali da poter essere accessibili a tutti. Oggi i tessitori SAORI fanno parte di una comunità globale, che favorisce la crescita e la guarigione delle persone in difficoltà in oltre 50 paesi nel mondo.
Un altro esempio importante è Common Threads Project, un collettivo che si occupa di donne e ragazze che hanno subito abusi fisici o sessuali. Il progetto tende a produrre un processo di guarigione che partendo dall’ascolto delle loro storie, il riconoscimento del loro dolore e l’affermazione delle loro speranze, avviene attraverso la realizzazione di opere di textile design, vere e proprie opere d’arte.
Common Threads Project offre a donne e ragazze opportunità di guarigione innovative ed efficaci, come è chiaramente evidente dalla loro ultima mostra “Fabric of healing- story cloths by survivors of trauma, war and gender-based violence”.
Ancora, “The school of practical philosophy”, dove la textile designer e insegnante Preethi Gopinath, insieme ad altri docenti, facilita il processo di scoperta del sé attraverso il senso di comunità. Nella scuola, gli studenti “esperienziano” le grandi domande della vita in modo solidale e sistematico: gli studenti sono coinvolti in “lezioni partecipative” (non passive lezioni teoriche), in compagnia di “cercatori” (non insegnanti), dalle quali emergono principi e pratiche da applicare nella vita quotidiana: una “cassetta degli attrezzi” nella quale gli arnesi da utilizzare sono la saggezza di grandi filosofi, pensatori, maestri spirituali.
Infine i “Sensory Textile” dell’artista tessile Sugandha Gupta, sono opere che sottolineano la necessità di impegnarsi nella vita attraverso i sensi, coinvolgendo l’interlocutore non solo come spettatore o acquirente, ma come parte attiva. Famosissimo il progetto “rituale quotidiano” in cui quadrati di feltro fatti a mano da 4 x 4 pollici, vengono infeltriti ad ago come rituale quotidiano per 60 giorni: in maniera non uniforme i campioni cambiano forma, colore, texture, imitando il passaggio delle stagioni in natura. Il lavoro manuale viene così interpretato come tecnica di cura, per arrivare a connettersi col sé più profondo e, contemporaneamente, con la saggezza più alta.
Tutte le storie delle realtà elencate sopra offrono spunti progettuali e creativi importanti, mostrandoci praticamente come la vita di ognuno di noi possa essere interpretata come un’opportunità per creare significato: possibilmente alto e profondo quanto noi, infiniti enigmi in perpetuo divenire.
La prima immagine dell’articolo è tratta dal progetto Abitario, Ph. Credits Maria Teresa Furnari e Lorenza Daverio.
Denise Bonapace è una progettista che indaga il rapporto tra corpo e abito: la moda, per lei, è linguaggio del progetto applicato al corpo, e alla persona. È laureata in Disegno Industriale presso il Politecnico di Milano. E’ stata consulente per diverse aziende di moda italiane e ha parallelamente sviluppato progetti sperimentali personali. Dal 2006 è docente titolare di corsi di knitwear design presso Politecnico di Milano, NABA e Fashion Institute of Technology.
Articolo molto interessante, bravissima Denise, come sempre! Ho avuto uno spunto creativo per le mie composizioni (flower design) di cui ti racconterò .