L’economia del fashion system si alimenta con l’adesione passiva da parte del consumatore ai trend della moda. Modelli di vita generati da una comunicazione pervasiva che spingono centinaia di milioni di persone in tutto il mondo all’acquisto di capi e accessori che nel giro di pochi mesi passano dallo status di feticcio a quello di spazzatura. Quello che era giudicato assolutamente “IN”, la stagione successiva diventa assolutamente “OUT”. Non è effetto di un brainwashing  questo? 

di Marina Savarese

Prima del greenwashing, ma anche del pink, del brown e di tutti i “washing” di cui si sente parlare ultimamente, esisteva lui: il brainwashing. Padre di tutti i lavaggi, quello del cervello, non è una tecnica inventata dai Signori del Marketing, bensì da quelli della Guerra. 

Antica arte del controllo mentale, fu sviluppata durante la Guerra di Corea (1950-53) per indottrinare i prigionieri: con tecniche e strategie di pressione psicologica, li portavano a cambiare le loro convinzioni e ad assumere quelle dei nemici carcerieri, spesso in maniera inconsapevole.

Al di là della sua origine storica, il brainwashing applica forme di manipolazione psicologica e mentale che portano a un’adesione del tutto acritica e passiva di idee, comportamenti, stili di vita. Condotta all’incapacità di un pensiero autonomo, la persona vittima di brainstorming rinnega tutte le scelte del passato per adottare con entusiasmo quelle nuove generate dall’indottrinamento mirato. 

Ma pensateci… non succede così anche nel fashion system? Come è possibile altrimenti l’adesione passiva ai trend della moda da parte di centinaia di milioni di consumatori? Come è possibile che capi o accessori di abbigliamento, oggetto di desideri spasmodici – magari anche frutto di sacrifici economici e personali causati dal loro acquisto e poi di gratificazioni derivati dal loro possesso – nel giro di pochi mesi passino dallo status di feticcio a quello di spazzatura in milioni di armadi sparsi nel mondo? Quello che era giudicato assolutamente “IN”, la stagione successiva diventa assolutamente “OUT”. Non è un lavaggio del cervello questo?

Brainstorming victim

Victim. Ph. di Angela Panetta Frontera

Da Luigi XIV a Chiara Ferragni

Non è solo sul modo di raccontarci bugie più o meno grandi (i vari colori del washing: green, pink, rainbow…) che la comunicazione del sistema moda agisce sulla nostra mente; lo fa anche, da tempo immemore, per influenzare quotidianamente le nostre abitudini di consumo, il nostro rapporto con l’abbigliamento, con la nostra immagine e con l’estetica in generale, andando a creare, in molti casi, delle vere e proprie dipendenze. Non a caso, nel linguaggio corrente, è entrato il termine fashion victim. 

Ma andiamo con ordine.

Fino ai primi anni del ‘900 la moda ha avuto la sana abitudine di cambiarsi d’abito con tempi lenti, molto lenti: le fogge dei costumi duravano anche cento anni, prima che arrivassero piccole varianti a far alzare il punto vita di qualche centimetro o modificare un colletto. E sebbene le prime figure influenti girassero già da secoli  (Luigi XIV è stato uno dei primi trend setter), non esistevano potenti mezzi di comunicazione per diffonderle in maniera massiccia, se non i ritratti dei pittori di corte.
Rivoluzioni industriali ed evoluzioni di stili di vita, la nascita delle prime case di moda e l’affermazione dei primi stilisti e designer hanno reso tutto il sistema più rapido e incalzante, ma fino alla prima metà del secolo scorso le collezioni di moda si riferivano ragionevolmente alle due stagioni.
Parallelamente, per stimolare gli acquisti e generare bisogni, la comunicazione dei marchi e  il giornalismo della moda sono diventati sempre più diffusi con un’informazione che da settore e di servizio (per esempio il racconto dei vantaggi delle nuove invenzioni come le calze di nylon al posto di quelle di seta) sono diventate narrative di lifestyle, con uno storytelling sempre più strumentale al consumismo (i capi must have della stagione, i colori del momento, i consigli per gli acquisti, i capi immancabili nel guardaroba e così via).  

Dalla carta stampata alla televisione, dai primi testimonial alle prime sponsorizzate sui social media, dall’armadio strabordante di Carrie di “Sex and the City” a quello di Chiara Ferragni con il suoi 28 milioni di follower, nell’era dei social ovunque intorno a noi siamo mitragliat* da consigli per gli acquisti, sotto forma di “haul” o “unboxing” di influencer che sono a libro paga dei marchi di lusso, fast fashion o ultra fast fashion. 

Nel frattempo, un giornalismo sempre più approssimativo e accondiscendente, usa un linguaggio inconsistente per esaltare e rendere appetibili capsule collection delle quali nessuno sentiva il bisogno. I tempi cambiano, le tecnologie avanzano, ma le leve che si vanno a toccare sono sempre le stesse.
Si punta al senso d’inadeguatezza di tante persone, al dovere di essere cool e alla moda, al possedere per essere, all’obbligo all’omologazione come segno di appartenenza e al primeggiare come segno di riconoscibilità. È una comunicazione incessante, espressa con linguaggi e modalità subdole, alla quale siamo talmente abituati e assuefatti da diventarne inconsapevoli.

Isolati davanti agli schermi dei telefonini, bombardati da milioni di informazioni generate ad arte da algoritmi che codificano ogni singola parola e ci offrono “quello che pensano potrebbe piacerci”; rassicurati dai consigli di personaggi più o meno influenti e soprattutto allettati dalla certezza di essere fighi se in linea con l’ultimo trendcore: non sono tutte manifestazioni di dipendenza?

Dipendenza vs consapevolezza

La dipendenza da shopping, da semplice smania per gli acquisti può sfociare nella sindrome da shopping compulsivo, il desiderio irrefrenabile di fare acquisti, a prescindere dal “cosa”.
Di quest’attitudine Sophie Kinsella ne fece un best-seller, “I love shopping”; qui appare per primo la parola, oggi caduta in disuso, Shopaholic, termine inglese coniato per descrivere una persona che fa acquisti in maniera ossessiva e incontrollata. Nel libro la protagonista si ritrova a spendere e spandere fino alla rovina economica per soddisfare un desiderio di possesso sempre più effimero che insieme a un’euforica sensazione di benessere alimenti il suo senso di autostima.

Siamo così: dolcemente complicat*, tremendamente insicur* e costantemente alla ricerca dell’approvazione altrui. Apparire, mostrare, dimostrare, sono all’ordine del giorno. Ed entra in gioco anche il bisogno di appartenenza, che non è solo appannaggio di gruppi di adolescenti, ma attiene alla più ampia questione legata all’approvazione sociale (che travolge tutti, ad ogni età).

Sono moltissimi i meccanismi mentali, psicologici ed emotivi coinvolti quando si parla di moda e acquisti e la soluzione, spesso, non è semplice come sembra perché implica un profondo lavoro su se stess* – ci conferma Marzia Benvenuti, psicologa e psicoterapeuta cognitivo e comportamentale -. Viviamo in un contesto storico nel quale stress, ansia, insicurezze e fragilità sono all’ordine del giorno, per cui è facile ricorrere allo shopping come meccanismo di compensazione; comprare un oggetto rappresenta un momento di evasione, una gratificazione e un rassicurante appagamento dell’ego.”

La consapevolezza dei meccanismi vigenti e un’indagine sulle pulsioni che attivano il nostro ego e che agiscono sull’autostima rappresentano passaggi necessari per il riscatto dalla condizione di consumatori passivi e succubi.
Consapevolezza e spirito critico sono fondamentali per relazionarci meglio con noi stessi, per liberarsi dal peso del giudizio altrui e avere un rapporto sano con la moda e con i consumi in generale – conclude Marzia Benvenuti -. Slegarsi da abitudini consolidate nel tempo, comprare meno ma meglio, passando da shopping sfrenato a shopping consapevole, sono questioni più mentali che pratiche”.

C’è bisogno di un risettaggio, una riprogrammazione basata sull’attivazione del pensiero libero e indipendente: tornare a porsi domande, mettersi in dubbio, accendere il cervello e riconnettersi con il proprio sentire.

E ci sarebbe anche bisogno di onestà e di etica nella comunicazione di moda. Ma è indubbiamente più facile agire su noi stessi, che ribaltare un sistema che funziona così da secoli…

Grazie per il supporto alla psicologa Marzia Benvenuti.
L’illustrazione in apertura dell’articolo è di Enrica Mannari ed è tratta dal libro Sfashion di Marina Savarese per Morellini Editore.

Marina Savarese è una fashion designer che ha dedicato la sua attività alla moda alternativa, etica e sostenibile, a progetti  creativi, corsi e workshop. Già docente di Visual Merchandising al Polimoda di Firenze, è autrice di un saggio di controtendenza e consapevolezza sulla moda “Sfashion” (Morellini, 2016). Dal 2020 è co-founder di  Sfashion-net, un network dedicato a micro-imprese e brand indipendenti con un’impronta slow+sartoriale+sostenibile+social+soul e di W(e)ave Magazine, la prima rivista italiana dedicata interamente alla slow culture.