di Paola Baronio
Foto Serpicanaro, Openwear upcycle Shirt Workshop, 2012
Prima di conoscere out of fashion, se mi avessero chiesto cosa fosse Rana Plaza, tirando a indovinare probabilmente avrei risposto che era il nome di un hotel. Del più grave incidente della storia dell’industria tessile non ne sapevo nulla. Non per mia discolpa, ma temo che se facessimo la stessa domanda in questo momento, alle casse di uno dei tanti fashion store nelle nostre città, riceveremmo ben poche risposte sensate.
La verità è che delle 1133 persone (per la maggior parte donne) che il 24 aprile 2013 persero la vita a Savar in Bangladesh e delle 2515 altre che rimasero ferite nel crollo dell’edificio di otto piani dove erano stipati migliaia di lavoratori impiegati nelle industrie tessili locali, non parla volentieri nessuno. E men che meno i giornali che ci informano ogni giorno, ogni settimana, ogni mese sulle tendenze della moda e che campano della pubblicità di tante aziende che il 24 aprile 2013 sono state coinvolte come parte in causa di questa tragedia. In effetti le immagini dei corpi sepolti a metà tra le macerie, che sono a disposizione di tutti sul web – e che possono tra l’altro essere utilizzate senza costi di copyright – sono ben poco glamour.
Per questo apprezzo moltissimo la campagna Fashion Revolution portata avanti in Italia con tanto entusiasmo da Marina Spadafora: il gesto di rivoltare i nostri abiti per mostrare davvero di cosa sono fatti è potente, le immagini e la grafica sono di grande impatto, perfette per una diffusione virale che ha già fatto breccia lo scorso anno nel mondo della moda e che lo farà ancora di più il prossimo 24 aprile.
Io ho saputo di Rana Plaza in un pomeriggio della primavera scorsa, quando mi sono trovata, quasi per caso, ai Caffè della Moda organizzati da Connecting Cultures, ad ascoltare Ersilia Monti di Abiti Puliti. Insieme alla sua accorata testimonianza, ho ascoltato il racconto di altre donne impegnate sul fronte della moda ma attraverso nuovi approcci, nuovi punti di vista, nuove pratiche.
Il mio interesse per la moda etica e sostenibile e poi il mio impegno con e per out of fashion è nato dall’immagine di quei visi sconvolti, dal reportage con le foto dei dispersi, dal pensiero di tutte quelle famiglie senza più una madre, una sorella, una figlia. Tutto quel dolore e tutta quella colossale perdita per regalare a noi, distanti migliaia e migliaia di chilometri, il gusto di un acquisto a poco prezzo. Non dico che da quel pomeriggio non seguo più la moda: anzi, avendo frequentato poi i corsi di out of fashion, la seguo più di allora. Ma con altri occhi. E con la consapevolezza che se vogliamo, possiamo tutti contribuire a cambiare le cose.
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