Livia Firth ha attivato nelle scorse settimane su twitter tramite l’hashtag #30wears una campagna di sensibilizzazione sul reale valore dell’abbigliamento, incoraggiando i consumatori ad acquistare capi che potrebbero essere  indossati nel corso di una vita almeno 30 volte.  Un incentivo a un consumo che valorizzi la qualità di un capo destinato durare nel tempo e la consapevolezza che qualità e tempo sono fattori che, sebbene incidano inevitabilmente sul prezzo di un capo, ne accrescono il valore.
L’iniziativa della Firth è stata documentata da un articolo pubblicato da International Business Times che ha avuto grande risonanza.

Il successo del sistema di produzione – e consumo – fast fashion, basato sull’offerta di capi trendy a prezzo low cost, ha generato una serie di effetti a catena che hanno impatti devastanti sull’ambiente e sulle condizioni dei lavoratori dell’industria tessile.
Questa produzione è delocalizzata nei paesi dove la manodopera ha costi bassissimi (nel Bangladesh dove solo allocate molte fabbriche, il salario minimo  di un lavoratore del tessile è di 2 dollari al giorno, 68 dollari al mese) generando ricavi colossali per i brand fast fashion: solo per dare un’idea, Amancio Ortega, proprietario di Zara, ha accumulato la fortuna di 70 miliardi di dollari mentre Stefan Person, CEO di H&M fondata dal padre, ha un patrimonio di oltre 20 miliardi di dollari.
Questa gente è diventata miliardaria sfruttando i lavoratori dei paesi indigenti e incentivando al contempo meccanismi di dipendenza all’acquisto – dichiara Livia Firth nell’articolo -. Immaginate se solo devolvessero il 5-10 per cento dei loro giganteschi guadagni per migliorare la filiera produttiva”.
La convenienza dei prezzi ha portato i consumatori ad acquisti compulsivi e al possesso di capi che hanno un utilizzo estremamente ridotto, spesso non più di una o due occasioni, prima di essere buttati nel cestino della spazzatura.

Secondo un’analisi di Council for Textile Recycling (l’organizzazione statunitense no profit impegnata impegnata nlla promozione di pratiche di riciclo nel settore tessile), ogni anno gli americani producono 10 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno, buttando circa l’85 per cento dei capi acquistati. Poiché la media di spesa annua calcolata per l’abbigliamento è di 1700 dollari, significa che l’americano medio ne spreca 1445 per crimpiazzare acquisti altrettanto effimeri. Lo shopping low cost quindi non è un affare per il consumatore. “Nell’acquisto di un capo di abbigliamento, insieme al cartellino del prezzo bisognerebbe valutare il costo per anno – dichiara Maxine Bédat, CEO di Zady, un retailer di moda sostenibile online citato dall’articolo di IBTse ti piace molto un capo lo vuoi indossare a lungo e non solo un paio di volte. Ragionare in termini di durata rappresenta un importante passo in avanti”.

Solo l’interesse dei consumatori a comperare capi di qualità anche a costo di spendere di più a motiveranno i brand a cambiare le loro politiche di business. I Millenials e i giovani adulti tra i 18 e i 24 anni possono essere i soli a spingere i marchi verso la sostenibilità con il loro potere di acquisto. “Ogni volta che compriamo qualcosa è come se dessimo il nostro voto a un brand. Prima di fare un acquisto – conclude la Firth a sostegno della campagna  #30Wears –  meglio fermarsi un attimo e domandarsi se lo si porterà ancora tra sei mesi e almeno altre trenta volte. Se la risposta è sì, comprate, indipendentemente dal negozio e dal marchio”.

Nel contesto di ricerca di una qualità che duri nel tempo, diventa fondamentale il ruolo del fashion designer, un professionista che sia in grado di interpretare non solo le tendenze della moda e le richieste del mercato ma anche una cultura del progetto. Servono designer in grado di pensare, di conoscere, di elaborare soluzioni esteticamente appaganti ma anche funzionali. La moda ha bisogno di una creatività consapevole e anche la campagna #30wears dà il suo contributo.