Dalla nascita del primo polimero nel 1837, alle microplastiche che avvelenano l’acqua di mari e oceani: l’impatto della plastica è ormai devastante per il nostro pianeta e l’industria della moda e del fast fashion hanno grandi responsabilità. Ma la ricerca e una cultura della sostenibilità, possono rendere possibile un cambiamento

di Dalia Benefatto

Senza la plastica, avremmo guardato lo sviluppo di una società descritto da un racconto completamente diverso. Saremmo stati spettatori di un altro film!

Non uso questa espressione a caso, se consideriamo che il primo polimero semisintetico, brevettato nel 1873 dal newyorchese J.W.Hyatt, è proprio la celluloide, la sostanza usata nei primi decenni del Novecento, per produrre pellicole cinematografiche.
E’ del 1907, la creazione del primo materiale plastico completamente sintetico: la bachelite (il nome del suo inventore, il chimico L.Baekeland), a cui seguiranno una serie di prodotti realizzati in laboratorio, utilizzando risorse fossili e naturali, come il petrolio e il gas: parliamo di  polivinilcloruro (1912), cellophane (1913), polistirene (1929), poliestere (1930), polietilene (1933), nylon (1935) e politelene tereftalato (1941) o meglio conosciuto come Pet, che invaderanno via via il pianeta, fino ai giorni nostri.

La plastica: una produzione abnorme in continua crescita
Per versatilità, basso costo e resistenza, a partire dal Dopoguerra, i polimeri si dimostrano pressoché indistruttibili e ad oggi, risultano prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, di cui circa la metà dagli anni 2000.

Ogni anno, se ne riversano negli oceani circa 8 milioni di tonnellate e da studi del WWF, solo nel 2020, si sono prodotte oltre 367 milioni di tonnellate di plastica nel mondo, ma nel prossimo futuro si prevedono numeri ancora maggiori a causa dell’uso crescente degli imballaggi.

Cina, Stati Uniti e India, sono i paesi più impattanti per la produzione di plastica monouso: le principali aziende produttrici di plastica “usa e getta” (sacchetti e bottiglie), sono la compagnia petrolifera ExxonMobil (nel mercato europeo coi marchi Esso e Mobil) e l’azienda chimica Dow, entrambe statunitensi, seguite dal colosso cinese del petrolchimico Sinopec .

Il primato mondiale nello spreco della plastica “usa e getta”, spetta all’Australia, con 59 Kg di rifiuti pro capite prodotti nel 2019, seguita dagli Stati Uniti (53 Kg), Corea del Sud e Regno Unito (44 Kg entrambe). L’Italia, con 23 Kg, è decima.
Intanto la Turchia, che accoglie ogni giorno dal Vecchio Continente 241 camion colmi di rifiuti di plastica, sta diventando la discarica d’ Europa.

Tuttavia, la politica da parte delle nazioni più industrializzate, di liberarsi dei rifiuti lontano dai propri confini perché vengano riciclati (ammesso che ciò avvenga, in quanto spesso vengono semplicemente bruciati), sta iniziando a trovare resistenze tra i Paesi destinatari dei nostri scarti. Nel 2019 la Malesia ha restituito 150 container pieni di plastica (42 dei quali provenienti dal Regno Unito), dichiarando il suo rifiuto a diventare “il deposito della spazzatura del mondo”.

Come milioni di microparticelle sintetiche avvelenano l’acqua
Nell’istante in cui le plastiche entrano in mare, inizia un processo di frammentazione che le porta a ridursi in dimensioni sempre più piccole e quindi impossibili ad essere recuperate, fino a diventare microplastiche.  

È un processo a cui sono soggetti tutti i materiali presenti nei manufatti del tessile-abbigliamento, realizzati con fibre sintetiche derivanti dal petrolio (poliestere principalmente) e che rappresentano l’85% delle fibre sintetiche, utilizzate per il loro basso costo, dalle filiere produttive del fast fashion.

Le microplastiche provenienti dai tessuti hanno tipicamente una forma di fibra e vengono spesso indicate come microfibre.

Le microfibre (fibre inferiori a 5 mm) stanno contribuendo drammaticamente alla crisi ambientale globale derivata dalla produzione di plastica.

Ogni anno, più di mezzo milione di tonnellate di microfibre, vengono rilasciate negli oceani del mondo semplicemente lavando i nostri vestiti, molti dei quali sono realizzati con materiali sintetici. Detergenti, azione di attrito e abrasione causano la dispersione delle microfibre nell’acqua durante il lavaggio domestico. La quantità può variare a seconda delle diverse composizioni di tessuti e materiali, ma le ricerche finora svolte, mostrano che alcuni indumenti possono disperdere in un unico carico di lavaggio, centinaia di migliaia, fino a milioni di microfibre che confluiscono poi nei mari.

Dai vestiti, al mare, al nostro organismo
Le conseguenze nell’ecosistema marino sono disastrose: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze chimiche tossiche. Le particelle di plastica più piccole ingerite arrivano a raggiungere anche il cervello negli animali marini, causando fenomeni di neurotossicità.

Per capire la portata del fenomeno, ancora dallo studio del WWF, risulta che una balena, durante una singola boccata, può filtrare fino a 700 mila litri d’acqua ingerendo così enormi quantità di plastiche e microplastiche.
In conseguenza alla catena alimentare, la plastica contamina il cibo che ingeriamo, al punto che tracce di microplastiche sono state ritrovate prima nella placenta, poi nel latte materno e infine nel plasma di 17 volontari analizzati su un totale di 22. 

Le soluzioni possibili: materiali biobased e biodegradabili
È urgente un cambio di sistema verso un modello di business improntato all’economia circolare, in sostituzione del vecchio paradigma lineare (estrarre, produrre, utilizzare e gettare) e l’avvio di nuove abitudini comportamentali con l’obiettivo di prolungare la vita dei materiali: condivisione, riparazione, riciclo, prestito, riutilizzo e ricondizionamento.

In Italia le prime plastiche biodegradabili risalgono alla fine degli anni ’80, ma la loro produzione venne poi abbandonata per il mancato raggiungimento degli standard di qualificazione della degradazione biologica.

Le bioplastiche (capaci di essere decomposte da funghi e batteri) di nuova generazione sono risultate invece altamente performanti in termini di biodegradabilità e di compostaggio (processo accelerato di biodegradazione che avviene in presenza di ossigeno, in ambiente controllato creando una miscela finale, utilizzata come fertilizzante).

Alcune bioplastiche (biobased), derivano da sostanze vegetali come mais, grano, patate, canna da zucchero, alghe e cellulosa; altre sono biodegradabili, anche se ottenute da fonti fossili e tra queste il policaprolattone (pcl).

Inoltre alcuni materiali ,come l’acido polilattico (Pla) e il MATER-BI, che è a base di amido, sono sia biodegradabili sia biobased.

I materiali realizzati in bioplastica devono essere certificati UNI EN 13432 e avere un marchio di compostabilità, quali Ok Compost, Compostabile CIC, Compostable (il marchio dell’associazione European Bioplastics).

Il settore del tessile-abbigliamento, non prevede ancora un tale sistema di codifica, ma la sua introduzione sarebbe del tutto possibile, poiché la quantità di microplastiche perse dalle fibre sintetiche è misurabile tramite test condotti da enti scientifici preposti. 

In tal senso segnalo i test di comparazione richiesti da Pietro Valenti, fondatore e direttore di Pangea, società di consulenza nel campo tessile, a Centrocot (Centro Tessile Cotoniero e Abbigliamento) su due tessuti contenenti entrambi poliestere ma con fibre di diversa lunghezza. Quello derivato da fiocchi di poliestere (fibra di circa 10 cm) ha generato una dispersione di microplastiche sei volte superiore a all’esemplare costituito da fibre più lunghe (1000 mt).

A testimonianza di alcune best practices in corso, voglio segnalare un tessuto elasticizzato brevettato, che utilizza una fibra (UHMWPE) derivante da un polimero utilizzato per la realizzazione di protesi, quindi biocompatibile e fungicida, applicato ai capi d’abbigliamento sportivo per motociclisti.

Microplastiche VNK

Un’immagine dalla collezione di moda sostenibile NVK Daydoll

Un brand di moda femminile di nuova concezione, utilizza per tutta la sua produzione il Modal una fibra artificiale che deriva dalla polpa di faggio realizzata da Lenzing che rende i tessuti morbidi e lisci, molto confortevoili da indossare, lavabili alle basse temperature e che non necessitano di essere stirati.

Oltre alla produzione, esistono soluzioni efficaci per la manutenzione del capo.
Per ovviare alla dispersione delle microfibre durante il lavaggio domestico, sono disponibili filtri appositi per la lavatrice, che ne riducono il rilascio nell’ambiente a breve termine, mentre sono in via di sviluppo, soluzioni a lungo termine.
Se le lavatrici non dispongono dei filtri specifici, sono reperibili in commercio borse dove introdurre gli indumenti, prima del programma in lavatrice, che ostacolano la fuoriuscita delle microplastiche dei capi sintetici, o apposite sfere per il bucato da posizionare nel cestello, durante gli abituali cicli di lavaggio.

Considerata la praticità e facilissima reperibilità sono convinta che questi prodotti, dovrebbero essere classificati e divulgati come Dispositivi di Protezione Collettiva (DPC), analogamente a quanto già fatto con le mascherine durante il periodo pandemico. 

Rendendo obbligatori i filtri per lavatrici, la Commissione Europea potrebbe ridurre in modo significativo il rilascio di microplastiche nell’ambiente e quindi realizzare uno dei punti della strategia dell’UE, per i tessili sostenibili e circolari, nell’ambito del piano d’azione per l’economia circolare. Al contempo, durante la fase di progettazione dei prodotti, è sempre auspicabile l’utilizzo di materiali di derivazione naturale, capaci di limitare in modo efficace l’inquinamento da microplastiche. 

Nel 2004 Il premio Nobel Rita Levi-Montalcini, nel libro “Tempo di azione”, esprimeva chiaramente l’urgenza di passare dalle parole ai fatti.

Nel ricordarla, mi unisco al suo appello a gran voce: è ora di AGIRE.

Fondatrice di DEVALIA, Dalia Benefatto è esperta in comunicazione di filiera, tracciabilità e soluzioni di trasparenza con validazione da parte di terzi.
Con un background in chimica tintoriale, lavora nel settore tessile e della moda da più di 20 anni e fornisce consulenza ad aziende e marchi sull’innovazione responsabile, in collaborazione con istituzioni scientifiche.