In occasione del decimo anniversario del più grave incidente del lavoro nel settore del tessile, l’intervista a Deborah Lucchetti portavoce della sezione italiana di CleanClothes Campaign impegnata in prima linea nel sostegno e nel miglioramento dei diritti dei lavoratori dell’industria tessile globale

di Paola Baronio

In questi giorni ricorrono i 10 anni dal più grave incidente sul lavoro della storia del tessile: a Dacca, capitale del Bangladesh, il 24 aprile 2013 crollò Rana Plaza, un edificio di otto piani dove erano stipati migliaia di lavoratori impiegati nelle industrie tessili locali: ci furono 1138 morti e 2515 feriti. Nelle fabbriche si realizzava abbigliamento per molti marchi di moda occidentali in condizioni di lavoro e di sicurezza inimmaginabili per i nostri standard. L’edificio era stato giudicato pericolante il giorno precedente ma i dipendenti tessili furono costretti a recarsi ugualmente al lavoro, con la minaccia della perdita di un mese di salario.
La tragedia di Rana Plaza ha mostrato al mondo le condizioni delle fabbriche di abbigliamento in gran parte dell’est asiatico e lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori tessili: salari al di sotto della dignità, ambienti di lavoro insalubri, il divieto ad associarsi in sindacato. Anche attraverso una campagna come quella di Clean Clothes e dei suoi alleati, è stato ottenuto un risarcimento per la famiglie colpite dal disastro e stabiliti accordi in favore delle condizioni del lavoro nel comparto del tessile.
Ne riprendiamo le fila con Deborah Lucchetti, presidente di FAIR e portavoce della “Campagna Abiti Puliti”, la sezione italiana di CleanClothes Campaign, la più grande alleanza del settore abbigliamento di sindacati e di organizzazioni non governative impegnata in 17 paesi Europei nel sostegno e nel miglioramento dei diritti dei lavoratori dell’industria tessile globale.

Qual è la situazione in Bangladesh a 10 anni dal crollo di Rana Plaza?
La sicurezza nelle fabbriche tessili in Bangladesh è migliorata notevolmente, grazie all’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento, più volte rinnovato e nel 2022 esteso anche al Pakistan – spiega Lucchetti -. L’Accordo ha posto sotto monitoraggio indipendente e trasparente più di 1.600 fabbriche coprendo circa 2 milioni di lavoratori. Contrariamente ai sistemi commerciali di audit sociale, ha avuto successo perché è legalmente vincolante, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo che consente alle operaie di segnalare i problemi in maniera protetta”.

È noto che le trattative per il risarcimento alle famiglie delle vittime di Rana Plaza non sono state facili. Come sono avvenute?
Il risarcimento è stato ottenuto dopo una lunga e faticosa campagna di pressione pubblica degli attivisti della società civile internazionale, in particolare della Clean Clothes Campaign, durata fino al 2015 quando si è concluso l’iter risarcitorio. Mentre gli attivisti facevano una campagna pubblica senza precedenti anche per la scala del disastro, il meccanismo per il risarcimento ispirato alla Convenzione ILO sugli infortuni sul lavoro prendeva forma, dando vita al Rana Plaza Arrangement (fine 2013), l’accordo storico firmato da Governo, imprese nazionali, marchi,  sindacati nazionali e  internazionali, organizzazioni della società civile locali e internazionali che ha poi consentito di raccogliere i fondi necessari al risarcimento di tutte le famiglie delle vittime e dei sopravvissuti rimasti inabili al lavoro. Tutto il processo di definizione dei risarcimenti è stato presieduto dall’ILO, le imprese aderenti al Trust Fund hanno contribuito, in alcuni casi volendo restare anonime. Ciò è avvenuto grazie alla pressione pubblica visto che l’adesione al fondo era volontaria”.

Quale è stato il risarcimento per le vittime e per i familiari?
È stato calcolato il danno economico occorso ad ogni lavoratore rimasto ucciso o ferito, parametrato sui salari persi per il ciclo di vita lavorativa atteso, secondo la Convenzione ILO 121 sugli infortuni sul lavoro, oltre alle spese mediche sostenute. Non sono stati purtroppo compresi invece i danni psicologici. In tutto 30 milioni di dollari, non molto per imprese ma un segnale storico per le vittime perché per la prima volta si è costruito un meccanismo credibile, trasparente e replicabile per garantire il risarcimento di infortuni sul lavoro”.

Quante e quali aziende erano coinvolte? Hanno tutte risarcito i danni?
“Circa una trentina almeno, i marchi rinvenuti tramite la faticosa ricostruzione della filiera” (qui la lista delle aziende, ndr)

Quale è il percorso dell’accordo Internazionale in Bangladesh?
Primo nel suo genere grazie alla natura vincolante, l’Accord for Fire and Building Safety in Bangladesh è stato firmato pochi mesi dopo il crollo del Rana Plaza da più di 200 marchi e distributori, i sindacati IndustriALL e UNI Global Union con le Ong Clean Clothes Campaign, Global Labor Justice, Maquila Solidarity Network e Worker Rights Consortium in veste di osservatrici. Nel nuovo programma di ispezione sono entrate più di 1.600 fabbriche che impiegano 2,5 milioni di lavoratori. L’Accordo fornisce meccanismi unici di responsabilità perché è legalmente vincolante per i marchi firmatari e dopo ispezioni accurate sulla sicurezza degli edifici, impone piani di ristrutturazione con scadenze precise per eliminare i rischi rilevati. Questo patto  garantisce che i fornitori abbiano le risorse per pagare i lavori di risanamento e fornisce ai lavoratori formazione, una via confidenziale per denunciare inadempienze in materia di sicurezza e salute e garantire una rapida azione correttiva, infine documenta le sue prestazioni attraverso una straordinaria trasparenza pubblica”. 

Quali sono stati i risultati concreti?
In 10 anni, oltre il 90% di tutti i rischi per la sicurezza riscontrati nelle fabbriche coinvolte nel programma sono stati risolti, rendendo gli edifici più sicuri per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici del settore. Inoltre 1,8 milioni di lavoratori hanno usufruito di corsi di formazione sulla sicurezza e oltre 1.700 reclami in materia di salute e sicurezza sono stati trattati tramite il meccanismo interno per la gestione delle controversie. Sono risultati importanti che testimoniano la validità del meccanismo, e che vanno presidiati e mantenuti nella nuova configurazione nazionale avviate nel 2019, quando il nuovo organismo denominato RMG Sustainability Council (RSC) ha ereditato tutte le funzioni prima in carico allo Steering Commitee internazionale”.

Ci sono date vincolanti o scadenze?
L’Accordo è stato rinnovato nel 2018 e nel 2021, ma non è stato né semplice, né scontato esono state necessarie azioni di sensibilizzazione pubblica. Con il rinnovo del 2021 l’Accordo è diventato internazionale. Il nuovo International Accord for Health and Safety in the Textile and Garment Industry include finalmente la possibilità di estendere il meccanismo ad altri paesi, cosa che si concretizza a fine del 2022 con il Pakistan Accord, cui oggi aderiscono già più di 40 marchi internazionali. Oggi, a dieci anni dal Rana Plaza, è molto importante fare pressione verso le imprese che non hanno ancora firmato l’Accordo Internazionale, con la nostra petizione“. 

Grazie anche alle vostre campagne e agli interventi sui media, abbiamo la consapevolezza che i lavoratori del tessile sono tra i meno garantiti nel mondo.
Purtroppo sì. I principali cambiamenti negli ultimi 10 anni in Bangladesh sono avvenuti in materia di sicurezza, grazie agli accordi raggiunti. La tragedia del Rana Plaza però aveva messo in evidenza in maniera plastica la crisi di un sistema basato sullo sfruttamento endemico delle persone e delle risorse naturali. Oltre al problema della salute e della sicurezza, parliamo di un sistema basato su salari di povertà, precarietà e lavoro informale, scarsa sindacalizzazione e capacità di contrattazione, violenze di genere, violazione sistematica dei diritti umani e sociali, orari estenuanti e lavoro forzato. Tutte questioni aperte, aggravate dalla crisi della pandemia e dalla crescita esponenziale di modelli di business sempre più aggressivi, come la ultra-fast fashion molto spinta dall’e-commerce. Ai problemi sociali poi vanno sommati i danni ingenti all’ambiente. La moda è uno dei settori a più alto impatto, responsabile dell’8% delle emissioni climalteranti e di 92 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno di cui solo l’1% viene riciclato, per citare solo alcuni numeri. Si produce troppo e si mettono in circolazione prodotti fatti per durare poco, così si aumentano i fatturati mentre si riempiono a dismisura gli armadi e le discariche, con danni incalcolabili alla salute e all’ambiente. L’Unione Europea sta cercando di porvi rimedio attraverso la Strategia per il Tessile Sostenibile e circolare, messa a punto per favorire la transizione entro il 2030 però è stata criticata per la mancata attenzione posta agli aspetti sociali. Come se la transizione non fosse un problema sistemico”.

So che è difficile una graduatoria ma quale è, o quali sono, i Paesi nei quali la situazione è più grave?
Si, è difficile fare una graduatoria. I paesi di produzione del tessile, sebbene con differenze di contesto, presentano problemi analoghi, aggravati da situazioni istituzionali compromesse e dal fatto che il modello prevalente dell’industria tessile orientato all’esportazioni lascia ai paesi a basso reddito poche risorse per allestire efficaci sistemi pubblici di protezione sociale. Sistemi necessari per fare fronte alle situazioni di crisi, come la pandemia ha dimostrato”.

Adidas, Hilfiger, Calvin Klein, Nike… sono tanti i brand che sfruttano i lavoratori con salari da fame. Ho visto la pagina Pay Your Workers sul vostro sito con le denunce verso Adidas. Quanto è importante il ruolo del consumatore per aiutarvi a fare pressione sulle aziende che voi denunciate?
E’ molto importante, se il consumatore sveste i panni dell’imbuto digerente e si riappropria di quelli dell’attivista, protagonista delle sue scelte. Per fare cambiare strada alle aziende serve un grande salto di consapevolezza e servono i numeri. Bisogna smascherare le strategie di comunicazione ingannevoli che celano condotte di impresa irresponsabili vendendoci tutto come se fosse sostenibile. Si chiama greenwashing ed è molto diffuso nel mercato dominato dal modello della fast fashion, che spreme persone e ambiente mentre ci illude di fare il bene del pianeta. Bisogna togliere consenso a questo mercato, adottare comportamenti di consumo consapevole e sostenere le campagne che spingono le imprese a cambiare strada e il legislatore a produrre norme vincolanti”.

Salario dignitoso

A che punto è la campagna GoodClothesFairPay per un salario dignitoso? C’è una deadline per la raccolta delle firme tra i cittadini europei?
Si tratta di una petizione diretta alla Commissione europea con la quale si chiede che l’UE approvi una legislazione specifica per l’introduzione di salari dignitosi nel settore tessile. L’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) è uno strumento specifico previsto dai Trattati europei. Se la petizione raggiunge almeno un milione di firme in un anno la Commissione europea è obbligata a prenderla in considerazione, cioè a valutare la possibilità di proporre a Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea di promulgare la legislazione proposta nella petizione. La nostra proposta di Direttiva contiene l’obbligo per le imprese di adottare un piano di due diligence lungo l’intera catena del valore che assicuri la corresponsione di salari dignitosi, abolendo quelle pratiche di acquisto sleali che ne impediscono il godimento a tutte le lavoratrici della filiera. Al momento le firme raccolte sono 130mila, purtroppo siamo lontani dall’obiettivo e ci restano solo 3 mesi poiché scade il 19 luglio. E’ quindi molto importante in questi mesi fare uno grande sforzo per dimostrare al legislatore europeo l’urgenza di affrontare il tema della povertà lavorativa diffusa nel settore. In ogni caso, qualunque sia l’esito della petizione (in generale l’ICE è una sfida difficile da portare a compimento), continueremo a lavorare perché questa istanza urgente sia assunta dal legislatore e dalle imprese”.

PER FIRMARE LA PETIZIONE PER IL SALARIO DIGNITOSO ALLE PERSONE CHE PRODUCONO I NOSTRI ABITI IN TUTTO IL MONDO

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Avete in programma iniziative particolari per il 24 aprile?
Ricorderemo il decennale del Rana Plaza in diversi modi. Abbiamo cominciato il 20 aprile con una importante iniziativa organizzata insieme a CGIL-CISL-UIL con un bilancio a tutto tondo sul tema della salute e della sicurezza, dal Bangladesh all’Italia. Abbiamo voluto concepire il decennale del Rana Plaza come una occasione per un bilancio vero su cosa è cambiato e cosa resta da fare – e resta davvero molto – per rendere l’industria del tessile ovunque più sicura. Saremo poi presenti il 27° aprile a Bolzano per un evento organizzato da OEW mentre il 28 aprile Equo Garantito promuove presso le Botteghe del Commercio Equo, nella giornata mondiale OIL per la salute e la sicurezza sul lavoro, una foto action da pubblicare dai propri account con il messaggio #SignTheAccord #RanaPlazaNeverAgain, unitamente all’invito a firmare la nostra petizione “La sporca dozzina”. Un invito che rivolgo a tutti e tutte, perché questo memoriale non sia retorico”.

La foto di apertura: Khaleda was working in the Rana Plaza building when it collapsed on 24 April 2013, ph. Picture: Narayan Debnath/DFID, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Helping_Khaleda,_one_of_the_survivors_of_Rana_Plaza_(14008308964).jpg

Paola Baronio è una giornalista professionista con una lunga esperienza nell’editoria specializzata e nell’informazione online. Da 10 anni si è specializzata sui temi della moda etica. È tra gli autori di Fashion Change, il libro sulla moda consapevole e sostenibile edito da Connecting Cultures e tra i docenti della Masterclass di Out of Fashion dedicata alla Comunicazione. Nel 2014 ha aperto il blog di lifestyle lamiacameraconvista.com