Al di là dei facili slogan e dell’adesione a campagne di maniera, il primo vero passo verso la sostenibilità della moda è garantito da ambienti di lavoro sani e da relazioni umane decenti. Un risultato per niente scontato, perché implica un percorso di analisi sui propri comportamenti e un distacco da certe logiche di sistema che non tutti sono disposti ad affrontare
Abbiamo tutti ben presente le scene emblematiche de “Il diavolo veste Prada”, dove la spaurita apprendista Andy si ritrova nelle grinfie della tremenda Miranda, direttrice della rivista Runaway e grandissima st….a. Un film che voleva raccontare uno spaccato romanzato del dietro le quinte dello scintillante mondo della Moda, ricostruendo personaggi e dinamiche che, nella realtà, sono molto, molto peggio.
Già, quello che succede in certe aziende, da quelle del lusso fino alle più piccole (non é una questione di dimensioni, ma di mentalità), spesso supera qualsiasi sceneggiatura cinematografica. Essere disposti a tutto per lavorare nell’Olimpo del fashion, calpestare piedi, mani e teste pur di arrivare in alto (ma in alto dove?!?), ridurre le relazioni a PR utilitaristiche, dispensare “amore” e “tesoro” con sorrisi finti pur di ottenere qualcosa, stressare volontariamente le persone per questioni futili, obbligare a lavorare sotto pressione, vivere nella costante paura di venire “copiati” (come se non si scopiazzassero tutti) ed in generale rivestirsi di un senso di superiorità immotivato che autorizza a squadrare tutti dall’alto in basso…potrei continuare, ma credo si sia capito il senso.
La moda è, da sempre, un circolo chiuso ed elitario. Un regno dalle alte mura dove la collaborazione è un’utopia (o al massimo una mossa di marketing per intercettare nuovi segmenti di consumatori) e dove l’inclusione è solo uno slogan per farsi belli durante il mese del Pride. Un po’ come il gruppo cool del film “Mean Girls”: chi è dentro il circolo è figo, chi sta fuori è sfigato. Punto. Quel che si è disposti a sopportare per stare dentro al circolino degli eletti ha spesso dell’incredibile, fino a che anche i più motivati scoppiano e scelgono di percorrere altre vie.
Un report ICAAD (International Centre for Advocates Against Discrimination) del 2018 ha rilevato che la maggioranza dei lavoratori della moda ha problemi di salute mentale dovuti agli alti livelli di stress. Circa il 60%, per essere precisi, con patologie correlate al lavoro che spesso culminano con il tanto famoso e temuto “burn out”, fratello inglese del nostro esaurimento nervoso. Decisamente insostenibile.
Ecco perché costruire un ambiente di lavoro sano e delle relazioni umane decenti è il primo passo verso la sostenibilità. Ed è quello più difficile. Perché implica un lavoro su se stessi che non tutti sono disposti ad intraprendere. “Non si può pretendere di cambiare il mondo se non cambiamo noi in primis; non si può volere un mondo più “green” se non modifichiamo i nostri comportamenti in modo più consapevole e corretto” mi disse durante una chiacchierata la mia amica e fashion holistic mentor Farah Liz Pallaro. E non potrei essere più d’accordo. La moda è fatta dalle persone: sono le persone a creare aziende, brand e collezioni. Se queste non cambiano, sarà difficile che cambino le relazioni che si creano al suo interno.
Moda vs Moda Sostenibile
Da qualche anno, accanto al mondo della Moda, è apparsa sua sorella (quella buona, almeno sulla carta), la Moda Sostenibile. Un piccolo esercito in crescita di rivoluzionari, di change makers, di individui attenti alle problematiche ambientali, sociali ed etiche che provano, con il loro lavoro, a riscrivere le regole di un sistema che per troppo tempo ha abusato delle risorse del pianeta e delle vite delle persone che lavorano per lui. Designer, educatori, giornalisti e comunicatori che quotidianamente si impegnano per generare consapevolezza e diffondere buone pratiche di consumo e prodotti creati in modo attento e con un impatto minore. Chapeau!
Animati da nobili intenti, motivati ad apportare un cambiamento significativo, da questi esseri illuminati ci si aspetterebbero comportamenti differenti: rispettosi, aperti, collaborativi, non giudicanti. Anche perché le rivoluzioni partono dal basso e da obiettivi condivisi, ma si fanno insieme, non da soli. Eppure, alle belle parole presenti in quasi tutti i manifesti di queste realtà alternative che sfidano lo status quo, corrispondono spesso atteggiamenti ed azioni diametralmente opposti. I circoli si sono tinti di verde ma sono comunque chiusi; progetti simili nascono uno accanto all’altro perché collaborare con gli altri sembra levare identità al proprio marchio (che comunque deve primeggiare o essere riconosciuto come il promotore di questa o quella cosa); le idee e le iniziative devono comunque essere protette dagli sguardi altrui. Realtà che se le cantano e se le suonano, fanno e disfano, ognuna nel suo “giro”. Un’eredità, quella della Moda, difficile da scrollarsi di dosso.
A volte ho come l’impressione che la voglia di essere i più fighi, i primi, quelli con più seguito, sia la spinta più forte dell’obiettivo stesso. Come se collaborando si perdesse la propria identità. Come se non ci fosse spazio per tutti.
Insomma, abbiamo cambiato nome ma le dinamiche sono simili, le relazioni anche (tranne in rari ed isolati casi, solitamente costituiti da pesci piccoli che fanno gruppo per fronteggiare gli squali, ma quando un pesce mangia di più e cresce, subito abbandona il branco). Il tanto decantato “cambiamento” evapora sotto il fuoco primordiale dell’ego personale e la sostenibilità si riduce al cotone organico e al calcolo delle emissioni di CO2.
C’è bisogno di fare anima. C’è bisogno di ripartire da dentro. Dal buongiorno e buonasera. Dagli scambi sani con i colleghi. Dalla valorizzazione del lavoro dei fornitori. Dai sorrisi dispensati al mattino anche a perfetti sconosciuti. Dal saper comunicare con gli altri in maniera empatica. Dall’intrecciare collaborazioni sentite e non di comodo. Saper tendere una mano a chi è in difficoltà. Applaudire per i successi altrui. Creare un ambiente di lavoro sano e stimolante. Essere gentili con la vita che ci circonda, tutta, e di tutte le forme: umani, piante, animaletti e presenze invisibili. La sostenibilità comincia da come ci rapportiamo con il mondo, dalle relazioni. E come ci relazioniamo ha che fare con la percezione di noi stessi, con la consapevolezza e con la nostra autostima. Per fare ciò è necessario prendersi cura della propria anima, in un costante e non facile percorso di crescita personale. Così dentro, così fuori. Perché fare i paladini dell’ambiente e poi comportarsi in maniera scorretta, egoista, non etica, invidiosa, falsa e subdola… è decisamente insostenibile!
Ce la faremo?
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