Come preservare il bene inestimabile dell’acqua quando solo la produzione della moda e del tessile ne consuma il 3 per cento?  Dalia Benefatto, consulente aziendale per l’innovazione tessile responsabile, ci aggiorna sul contributo della tecnologia in un settore dove il cambiamento, per quanto difficile, è possibile 

di Dalia Benefatto

L’acqua è il nostro oro blu: è una risorsa basilare e prioritaria, il cui valore, ancor più nel contesto di siccità di cui soffre gran parte del pianeta per il surriscaldamento globale, è inestimabile. 

Più di un miliardo di persone, nei paesi a basso reddito dell’Africa e dell’Asia, nelle zone a sud del mondo non ha facile accesso all’acqua potabile. 

Se consideriamo che nel 2030, la scarsità d’acqua potrà essere il fattore scatenante della migrazione di circa 700 milioni di persone, diventa lampante perché l’obiettivo n. 6 dei dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite sia proprio di garantire la disponibilità d’acqua pulita e di strutture igienico sanitarie adeguate, in tutto il mondo.

Secondo le stime, l’industria del tessile e abbigliamento, comprendendo anche la coltivazione del cotone, consuma circa il 3% dell’acqua dolce globale. 

La produzione tessile utilizza infatti molta acqua per le lavorazioni a cui i prodotti, sia tessuti che capi finiti, sono sottoposti.

Basti pensare ai processi tintoriali e di finissaggio per i tessuti e ai vari trattamenti in capo realizzati per rendere i prodotti finiti commerciali, in linea con le tendenze del momento.

La quantità di prodotti chimici (pesticidi) utilizzata per la coltivazione e trasformazione del prodotto, è stata, fino ad oggi, la principale responsabile della collocazione al terzo posto dell’industria tessile e abbigliamento tra i settori industriali più inquinanti al mondo.

Oggi questo scenario è in fase di miglioramento, anche se c’è ancora molto da fare per ottenere un vero e proprio cambiamento.

Di grande utilità è stata sicuramente l’istituzione della Zero Discharge Hazardous Chemicals list (ZDHC), un programma nato in seguito alla campagna DETOX di Greenpeace per volontà di alcuni marchi di livello mondiale e che è volto all’eliminazione delle sostanze chimiche nocive alla salute dell’uomo, dell’ambiente e delle acque dove, soprattutto nei paesi a sud del mondo, vengono spesso scaricate senza processi di depurazione. 

Basti pensare ai composti perfluorurati (PFC) presenti nei prodotti idrorepellenti, i metalli pesanti (come il cromo) utilizzati nelle pratiche di tintura delle pelli, i clorurati e bromurati presenti nei prodotti ignifughi che trovano largo impiego nell’home textile.

Si aggiungono a questo contesto le 500 mila tonnellate di microfibre rilasciate ogni anno durante il lavaggio domestico di capi realizzati – totalmente o in parte – con fibre sintetiche.

La manutenzione dei capi infatti è la fase della vita dei manufatti tessili dove viene consumata più acqua in assoluto.

Siamo chiamati ad un uso più parsimonioso di questa preziosa risorsa naturale. In questo senso va incoraggiato l’acquisto di indumenti con fibre naturali e tinti con coloranti derivanti da minerali o piante che non prevedono nel loro ciclo produttivo l’utilizzo di chimica nociva.

E’ risaputo che la coltivazione del cotone (la fibra naturale più utilizzata in assoluto) necessita di enormi quantitativi d’acqua ma, applicando i principi dell’agricoltura rigenerativa che combina sapientemente metodi tradizionali con conoscenze e tecnologie moderne, è possibile prevenire l’impoverimento del terreno e quindi ridurre la quantità di acqua necessaria alle colture rispetto a quella utilizzata quando un suolo agricolo viene sottoposto a sfruttamento costante (Good Earth Cotton).

Sempre in tema di materiali tessili, il Denim (il tessuto più diffuso) di cui mi sono occupata per lungo tempo e i cui processi produttivi sono tra i più dannosi in termini di costo per l’ambiente, è uno dei principali imputati.

Le  produzioni di denim infatti comportano un utilizzo ingentissimo di acqua (sono richiesti tra i 7 e i 10 mila lt per realizzarne 1 solo paio), prodotti chimici e manodopera. 

Fortunatamente la tecnologia dei processi industriali – sia della tintura dell’indaco che del finissaggio finale – è stata oggetto negli ultimi anni di importanti miglioramenti.

Per quanto riguarda la tintura dell’indaco, è disponibile “Smart Indigo”, un sistema innovativo brevettato in Svizzera che prevede che i prodotti chimici (utilizzati normalmente per lo scioglimento del colorante in modo da agevolarne la penetrazione nella fibra), vengano per la maggior parte sostituiti dall’azione della corrente elettrica.

Questo comporta anche un secondo e importante vantaggio: il 70% dell’acqua utilizzata per la tintura può essere riciclata più facilmente (riducendo quindi anche i costi), e riutilizzata per ulteriori processi tintoriali.

Lo scarto generato da questo processo (il rimanente 30%) può essere depurato più facilmente (non essendo particolarmente inquinato) e smaltito.

Nel processo del finissaggio in capo dei jeans, l’ozono è ormai protagonista della fase produttiva che si svolge in tinto-lavanderie industriali specializzate, per conferire ai capi in denim (e non solo) i look di tendenza che il mercato richiede.

Oggi la maggior parte delle decolorazioni in capo adottano una tecnologia che impiega ozono (una molecola formata da tre atomi di ossigeno per azione di fattori come scariche elettriche, scintille o i fulmini) in forma gassosa in sostituzione dell’ipoclorito di sodio (cloro), finora utilizzato in enormi quantità.

L’utilizzo dell’ozono genera un forte risparmio dell’acqua perché riduce il numero dei lavaggi necessari all’eliminazione dei prodotti chimici e contrae considerevolmente anche i tempi di lavorazione perché non servono asciugature intermedie o neutralizzazioni dovute all’utilizzo di ossidanti per ottenere le sbiancature localizzate (il famoso effetto “used” ottenibile,oggi, utilizzando la tecnologia laser).

Questa tecnologia ha grandi vantaggi ma deve avvenire in condizioni di lavoro di massima sicurezza per gli operatori: l’ozono è un potente ossidante e quindi non può essere inalato mentre dopo la sua applicazione tutti i capi devono essere ben neutralizzati.

Ancora una volta quindi la ricerca di produzioni sostenibili ci porta ai valori del rispetto: rispetto delle persone, della nostra salute, dell’ambiente in cui lavoriamo e viviamo. A partire dall’acqua: così importante, così preziosa.

Il nostro oro blu è alla base di tutte le forme di vita e tutto quello che in relazione all’attività umana viene riversato nei fiumi, nei mari e nel suolo, diviene inevitabilmente un contaminante della catena alimentare di tutti gli esseri viventi del pianeta.

Preservare l’oro blu, significa garantire la nostra continuità, il nostro futuro.

Dalia Benefatto è  tra i docenti del Corso di Alta Formazione della moda sostenibile Out of Fashion.
La sua lezione è all’interno del secondo modulo del corso 2022-23 “LA SOSTENIBILITÀ COME PROCESSO: I MATERIALI, LA CHIMICA E LA PRODUZIONE” in programma il 16-17 dicembre 2022.