Non solo greenwashing: la comunicazione ingannevole che utilizza linguaggi e valori delle cause sociali e civili di ogni colore per puri fini commerciali è diffusissima e dilagante. Sara Cavagnero, avvocata specializzata in proprietà intellettuale e moda sostenibile, ci racconta come scoprirla e come combatterla
di Sara Cavagnero di rén collective
L’11 novembre, in occasione della della COP 27, la conferenza annuale sul clima organizzata dalle Nazioni Unite in corso a Sharm el Sheik, si è parlato diffusamente di moda. Durante la tavola rotonda dedicata, i maggiori players dell’industria, uniti intorno alla Fashion Industry Charter for Climate Action della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), hanno ribadito il proprio impegno per l’abbattimento delle emissioni e la svolta green del settore entro il 2050.
Sebbene l’impegno profuso da molti brand sia pregevole, la contraddizione tra i claim avanzati dalle imprese e l’efficacia delle azioni adottate appare evidente, non solo dal punto di vista ambientale. Ultimo di una lunga serie è, ad esempio, lo scandalo che ha travolto il gigante dell’ultra-fast fashion Shein, denunciato da Channel 4 poco più di un mese fa per sfruttamento dei lavoratori, remunerati con salari irrisori per turni di lavoro di oltre 18 ore.
Ci troviamo di fronte a una pluralità di quelle che, in gergo giuridico, possono essere inquadrate come “pratiche commerciali scorrette”, ossia dichiarazioni (non veritiere, ingannevoli, non adeguatamente supportate o non verificabili) riguardanti le caratteristiche di un prodotto o servizio, trasmesse sul mercato al fine di orientare le scelte del consumatore.
Tuttavia, se di greenwashing sentiamo spesso parlare, meno note sono le altre tipologie di “washing”, ossia una molteplicità di claim fuorvianti sulle quali questo articolo vuole fare chiarezza, partendo proprio dal corretto utilizzo delle definizioni.
Pink washing
Per “pink washing” si intende l’appropriazione e la strumentalizzazione di linguaggi, simboli, temi e valori del femminismo e dell’inclusività per scopi di marketing aziendale.
Benché se ne stia iniziando a parlare più diffusamente solo di recente, il fenomeno era già noto vent’anni fa: il termine è stato, infatti, coniato nel 2002 dall’associazione americana Breast Cancer Action. Tramite la campagna “Think Before You Pink”, l’ente si proponeva di denunciare e contrastare la vendita di un immenso numero di prodotti, pubblicizzati con il fiocchetto rosa, simbolo della ricerca sul tumore al seno, senza alcuna corresponsione del ricavato delle vendite all’associazione.
Il significato dell’espressione si è poi esteso, comprendendo tutti i claim legati a una (solo) apparente apertura nei confronti dell’emancipazione femminile, ed è utilizzato come sinonimo di “purple washing”, ove il viola rappresenta il colore identificativo delle lotte per la parità di genere.
Come riconoscere il fenomeno? Due esempi eclatanti.
Il primo è quello che può essere definito “femminismo pop” o “faux feminism”: abbigliamento che riporta slogan o frasi inneggianti al “girl power”, volti di figure femminili del passato divenute icone di libertà ed emancipazione (una su tutte: Frida Kahlo), strumentalizzate con l’esclusiva finalità di generare profitti.
Il secondo è legato al tema della “BodyPositivity”, ossia alla presunta accettazione di qualsiasi tipo di corpo, soprattutto femminile, nonostante il range di taglie e prodotti disponibili non rispecchi la varietà di fisicità rinvenibile tra gli acquirenti. Nonostante vi sia una sempre maggior sensibilità su questo tema, le azioni della fashion industry sembrano concentrarsi solo sui due estremi: modelle magre e (poche) modelle over. Scarsa è ancora l’attenzione sui temi dell’età e sulla diversity, inclusa la disabilità.
Rainbow washing
Detto anche “capitalismo arcobaleno”, il termine identifica la pratica per cui il simbolismo LGBTQI+ viene utilizzato dalle aziende nelle strategie di marketing al fine di manifestare il proprio impegno per i diritti della comunità LGBTQI+, senza – in realtà – apportare alcun miglioramento significativo.
In particolare, durante il mese del Pride (Giugno) molti siti, social media e punti vendita si riempiono di loghi arcobaleno, messaggi inneggianti all’orgoglio e all’amore in modo trasversale (quali “Love Is Love”), per promuovere capsules collections o limited editions di capi, calzature e accessori che si tingono di mille colori.
Solo una piccola percentuale di queste iniziative viene, tuttavia, realizzata in collaborazione con creativi LGBTQI+ e/o prevede donazioni ad enti attivi per la parità. In larga misura, invece, l’obiettivo delle aziende è quello di intercettare acquirenti appartenenti alla comunità LGBTQI+ e/o coloro che si sentono vicini alla causa: un’autentica strumentalizzazione.
Come riconoscere il fenomeno? Di seguito, una lista non esaustiva di segnali a cui prestare attenzione:
– Le iniziative hanno natura del tutto temporanea: vengono promosse e condotte esclusivamente nel mese del Pride, mentre la causa viene ignorata per i restanti undici mesi dell’anno;
– I brand non forniscono dimostrazioni concrete o misurabili del loro sostegno alla causa LGBTQI+ (es. ammontare delle donazioni);
– Le aziende realizzano i prodotti in paesi in cui le persone omosessuali, queer e trans subiscono discriminazioni sociali e legali;
– I brand non dispongono di policy aziendali a supporto dei dipendenti LGBTQI+ (non solo negli uffici, ma anche nelle fabbriche e negli stabilimenti dei fornitori).
Charity washing
Fenomeno trasversale ai precedenti, consiste nell’ottenere la fiducia, l’affiliazione o semplicemente l’interesse dei clienti allineando il proprio prodotto con un ente no-profit. Spesso riconoscibile per dichiarazioni quali “una parte del ricavato verrà devoluto all’associazione X”, senza specificare il quantum oppure senza fornire prova dell’avvenuta donazione.
Molto spesso green, pink e rainbow washing si intersecano con il charity washing.
Uno degli esempi del binomio green + charity washing che ha suscitato più clamore ci viene fornito ancora una volta, da Shein. Il brand ha scelto il Summit più importante per la moda sostenibile, a Copenhagen, per annunciare la donazione di 15 milioni di dollari in tre anni alla Or Foundation, un ente no-profit attivo presso Kantamanto ad Accra, in Ghana, il più grande mercato di abbigliamento di seconda mano del mondo.
Benchè il lavoro svolto dalla Or Foundation con gli addetti del settore rifiuti tessili sia pregevole, l’azione di Shein è stata duramente condannata e considerata un modo per mascherare gli ingenti danni arrecati dal suo modello di produzione, lineare e ultra-fast, con centinaia di migliaia di articoli di scarsa qualità prodotti quotidianamente e destinati, in larga misura, a finire proprio nelle discariche Ghanesi.
Inoltre, il WWF ha denunciato come le donazioni del brand si siano concentrate solo su attività condotte nel Paese africano, benché i capi invenduti o dismessi inquinino aree ben più vaste, che vanno dal deserto dell’Atacama, in Cile, all’Uganda.
In Italia, come si possono contrastare questi fenomeni?
Intervenire per contrastare i vari “washing” significa fare in modo che i consumatori acquistino prodotti in linea con le proprie preferenze. A tal fine, esistono già strumenti giuridici: in particolare, la normativa riguardante le pratiche commerciali scorrette e ingannevoli.
L’accertamento della scorrettezza della pratica commerciale avviene attraverso un procedimento amministrativo che può essere avviato d’ufficio dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) o su segnalazione di un consumatore, di un concorrente o di qualunque altro soggetto interessato. La normativa italiana prevede sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000,00 euro a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione.
Se si ravvisa qualcosa di sospetto, è possibile effettuare una segnalazione, anche online, sul sito dell’ACGM. Questa procedura, tuttavia, non è specifica e non prevede un riscontro diretto da parte dell’Autorità, salvo che venga avviata un’istruttoria.
Un primo passo, a livello normativo, potrebbe dunque essere quello di potenziare i meccanismi esistenti, per esempio, creando una sezione apposita per i casi di green, pink, rainbow e charity washing, in modo che l’Autorità possa eseguire la propria funzione con obiettivi mirati.
La prima difesa, tuttavia, resta senz’altro l’assunzione di consapevolezza da parte del consum-attore, chiamato – ora più che mai – a prestare attenzione, verificare, fare e farsi domande di fronte alle asserzioni dei brand.
Sara Cavagnero, è avvocata specializzata in proprietà intellettuale e moda sostenibile, Ph.D. Researcher in IP & sustainable fashion presso la Northumbria University. Collabora con diverse organizzazioni dedicate alla sostenibilità e riveste il ruolo di Law & Sustainability Expert per rén collective.
Cavagnero è tra i docenti del Corso di Alta Formazione della moda sostenibile Out of Fashion.
La sua lezione è all’interno del primo modulo del corso 2022-23 “LA CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ: NUOVI MODELLI DI BUSINESS PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE”, in programma il 25-26 novembre 2022 a Milano presso il Centro di Ricerca
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