Nei giorni scorsi si è tenuta a Berlino la conferenza De-Fashioning Education con l’obiettivo di “defashionizzare” la moda e cambiare i paradigmi di un sistema eurocentrico colpevole di colonialismo culturale ed economico ai danni di numerose altre aree del mondo. Ma è un percorso realizzabile? L’antropologa e attivista Sandra Niessen è convinta di sì e in questa intervista ci spiega come
Quando ho scoperto che a Berlino, Franziska Schreiber e Renate Stauss avrebbero organizzato una conferenza sul De-Fashioning Education, ho subito pensato che era ora di fare le valigie.
La conferenza ha riunito diverse voci legate all’ambiente della moda provenienti dai settori dall’educazione, dalla ricerca e dalla pratica; l’obiettivo è quello di discutere ed esplorare scenari futuri, più sostenibili, e contribuire al riorientamento dell’educazione alla moda verso culture educative differenti. Un’esplorazione volta a disfare l’educazione globale alla moda occidentale che ha cooptato un fashion system colpevole, dove tanti sono esclusi e troppo pochi traggono profitto.
Con un approccio critico, De-Fashioning Education ha dato voce a un pensiero radicale evidente anche nella proposta del programma che non ha previsto la classica formula a panel ma il succedersi di ‘provocazioni’ in forma di talk che hanno via via aperto sessioni di approfondimento partecipate.
Personalmente ho molto apprezzato il contesto e i contenuti emersi a Berlino e, per chi volesse saperne di più, consiglio di visitare il sito on-line con tutte le registrazioni video disponibili, e di cercare il prezioso podcast: fashion is a great teacher, lanciato nel 2020 con le interviste a una serie di personalità e attiviste sul tema dell’educazione, su come e perché sia necessario apprendere e insegnare moda.

Le attiviste di ‘malvestidas hanno invitato il pubblico a sfilare lentamente la trama dei poncho. Ph. ©Nikolaus Brade
Tra i vari interventi, la provocazione del collettivo malvestidas ha creato sul finale un’esperienza collettiva molto coinvolgente. Due donne hanno indossato un poncho tradizionale invitando il pubblico a sfilarne lentamente la trama, fino a smontarlo. Le parole ‘decolonizziamo la nozione di decolonizzare’ accompagnavano questo gesto, e invitavano a pensare che forse il senso di tutto stesse proprio lì: in quell’azione comune a cui tutt* prendevamo parte.
Ad aprire i lavori l’antropologa e attivista Sandra Niessen, tra le prime a lanciare alla moda, attraverso una serie di articoli, la sfida del ‘de-fashion’. La sua esperienza e la sua ricerca, iniziata alla fine degli anni ’70 in Indonesia, l’ha portata ad affermare come la moda eurocentrica abbia creato, anche a livello accademico, un sistema dominante ai danni di numerose altre zone del mondo, denominate le sacrifice zones della moda.
Ho avuto l’opportunità di incontrarla per un’intervista nella quale Niessen si è raccontata con l’empatia che la caratterizza.
Che cosa ti ha portato negli anni ‘70 in Indonesia?
“Per una serie di ragioni di ordine personale e culturale che hanno fatto crescere dentro di me la passione e la fascinazione per questo paese. Sono cresciuta con un padre olandese studioso di orticoltura tropicale che, dopo gli orrori della guerra, si era trasferito in Canada, coltivando per tutta la vita il desiderio di andare in Indonesia e uno zio editore che, invece ci si recava spesso e che, insieme ai racconti di quella terra promessa, mi portava in regalo delle bambole Wayang, le bambole marionette che giocano con le ombre, e che ai miei occhi di bambina avevano un fascino straordinario. Poi, durante il mio primo anno di master all’Università di Toronto dove seguivo le lezioni di un docente giapponese studioso di antropologia olandese, ho scritto per lui un saggio sui tessitori Batak. In seguito mi sono trasferita a Leida, in Olanda, dove per concludere il dottorato ho fatto ricerca negli archivi coloniali dell’università. Il triangolo Olanda-Canada-Indonesia è stato centrale in tutta la mia vita. In un certo senso stavo già esplorando la mia eredità, cercando il mio posto nel mondo”.
Come hai raggiunto questo obiettivo?
“È stato fondamentale il lavoro per il mio libro sull’eredità dei tessuti Batak in Indonesia (Legacy in Cloth, Batak Textiles of Indonesia, 2009). All’inizio non si prospettava come un progetto particolarmente ambizioso ma ho presto verificato che un approccio corretto e documentato avrebbe richiesto uno studio sempre più impegnativo e coinvolgente. Ho cercato di conciliare questa ricerca con l’incarico all’Università di Alberta, dove nel frattempo ero diventata docente, ma l’investimento di tempo e risorse per il libro era diventato nel tempo così significativo che, per terminarlo, alla fine mi sono risolta a rinunciare al lavoro all’università. Una volta trasferita nei Paesi Bassi, ci sono voluti altri dieci anni per concludere il testo e trovare i fondi per la sua pubblicazione. Il libro affronta la descrizione dell’intero repertorio dei tessuti Batak e questo ha comportato visite in tutti i musei d’Europa, del Nord America e alle collezioni private nell’area di Batak. Il mio obiettivo era la proposta di qualcosa che non fosse solo la mia interpretazione dei tessuti, ma la presentazione di un corpus di materiale che potesse essere utilizzato da altre persone in futuro. Alla fine ci sono voluti 45 anni per completare il libro ma l’ho sempre sentito come il mio mandato!”.
Ad Alberta insegnavi al dipartimento di clothing and textiles, vero?
“Sì, con un approccio antropologico alla moda che era del tutto inedito e che sinceramentemi ha fatto sentire sempre un po’ fuori posto al dipartimento. Quando ho scritto l’articolo nel 2003 sulle ‘sacrifice zones’, in cui criticavo l’assenza di una ricerca sul dualismo gerarchico nella moda, ero forse tra i primi ad articolare quel pensiero (l’articolo è contenuto nel volume Re-Orienting Fashion. The Globalizaion of Asian Dress edito da Bloomsbury, ndr). Tuttavia, non avevo idea di come potesse essere accolto. Quindi è stata una grande sorpresa scoprire che altre persone ora stanno dando seguito alle mie tesi”.
Credi che la conferenza abbia mantenuto il suo intento di ‘radicalità’?
“Sì, il radicalismo risiede già nella parola ‘de-fashion’. Parola che invita a liberarsi della ‘grande moda’. Per me questo è già un passo in avanti incredibile e molto radicale“.
Come possiamo cominciare a cambiare le cose? Da dove iniziamo?
“Ogni volta che abbiamo provato a pensare ad approcci pratici durante i laboratori di questi giorni, siamo sempre arrivati al punto di non saper bene come iniziare concretamente, perché in realtà, anche se conosciamo la destinazione, non abbiamo percorsi precostituiti. E sono molti i fattori che bloccano il cambiamento, come le istituzioni che si rivelano molto conservatrici e fanno fatica a cambiare, o i sogni degli studenti, e i debiti che essi devono contrarre per studiare. Questo scenario non è di aiuto. Nominare il problema forse è il primo passo verso una cura. Infatti per me è stato molto importante focalizzarmi sul fatto che il nostro sistema è radicato in una “moda alimentata dai combustibili fossili”, problema che esiste da 200 anni, ben prima della fast fashion. Tuttavia questa sembra l’unica pratica che conosciamo. Dopo il mio intervento in conferenza, il tema non è stato più affrontato. Credo perché sia più facile dire ‘cambia il modo di pensare al design’, oppure ‘cambia le tecniche’… ma come si cambia un sistema così radicato come quello basato sui combustibili fossili? È questo il grande problema che stiamo affrontando e non riguarda solo la moda: i trasporti, il nostro modo di vivere, la nostra intera vita è basata sui combustibili fossili. Ora faccio parte di Fashion Act Now, una comunità di attivisti e pensatori volta a trovare soluzioni, a cercare alternative e stiamo creando una sorta di database interattivo, chiamato ‘Our Commun Market’ e guardiamo a sistemi di abbigliamento alternativi, non basati sui combustibili fossili. Sono diventata un’attivista anche perché, dopo aver lavorato per 45 anni in Indonesia e visto il declino dell’attività dei tessitori, ho capito che i miei sforzi erano limitati, perché il problema è più grande. Per essere più efficace dovevo affrontare il problema dalla radice. Quindi, riflettendo sulla tua domanda su dove iniziare, credo che dobbiamo considerare un ‘sistema di abbigliamento’ universale e studiare la possibilità di proporre un sistema di abbigliamento che comprenda anche quelli sviluppati dalle altre culture. Questo dovrebbe far parte di tutti i programmi educativi perché non possiamo concentrarci solo sul nostro sistema. E perché così facendo rischiamo di non comprendere il nesso tra noi e gli altri”.
Tutte le immagini sono di Nikolaus Brade
Giulia Bonali è studiosa di moda e curatrice.
Laureata in Lettere Moderne presso l’Università di Firenze, e in Storia del Design presso il Royal College of Art e il Victoria & Albert Museum di Londra.
Nel 2016 ha vinto la borsa di ricerca per stranieri sulla Cultura Portoghese presso la Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona. Attualmente insegna Fashion Studies al Polimoda Istituto Internazionale di Moda a Firenze, e Fashion in Audiovisual all’Università della Sapienza a Roma.
Per il Magazine di Out of Fashion ha scritto anche La sfida di Covilhã: da distretto laniero a città creativa dell’Unesco
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